Un salto indietro nel tempo, percorrendo i passi delle donne che hanno fatto la storia del Salento, ci porta a scoprire le vicende che hanno interessato la classe proletaria salentina degli anni ’40, in particolare le tabacchine.
La dura vita delle tabacchine
Le ragioni condivise, le preoccupazioni taciute, le suppliche per poter lavorare, i sorrisi sommessi e il silenzio. Perché in silenzio dovevano lavorare, con il capo chino e in sottofondo solo il fruscio delle foglie di tabacco. Le tabacchine uscivano da casa prima dell’alba, quando non era ancora sorto il sole e le strade erano deserte, lasciando i bambini a dormire e portando nella borsa pochissimo da mangiare, a volte nulla.
Spesso erano costrette a percorrere diversi chilometri a piedi, prima di raggiungere la fabbrica e dopo dieci ore di lavoro, stanche e affamate, dovevano percorrere allo stesso modo la via del ritorno.
Alcune volte entravano in qualche chiesa che trovavano lungo il tragitto e lì, sedute ai banchi per una preghiera e per dare riposo alle gambe, cedevano al sonno, fino a quando qualcuno non le trovava e le svegliava.
Perché la stanchezza era tanta, e poi c’era la fame, c’era il pensiero per i figli e la costante preoccupazione di non riuscire a sfamarli, poiché il compenso del lavoro con il tabacco era troppo basso. Era dura la vita delle tabacchine, anni pesanti scalfiti da grandi sacrifici, da bocconi amari, dallo sfruttamento.
In più, alla loro estenuante vita lavorativa, si aggiungeva la schiavitù domestica: erano schiave perfino dei loro mariti, che erano costrette a servire con timore reverenziale e a cui dovevano dar conto anche dei loro pensieri più intimi.
La coltivazione di tabacco
Le coltivazioni di tabacco, destinato alle sigarette e alle pipe, si estendevano rigogliose negli sconfinati campi del Salento, grazie alla terra rossa, umida e fertile e al clima mite.
Le foglie più larghe venivano raccolte alle 3 del mattino, con movimenti molto semplici, da intere famiglie di contadini.
Le tabacchine lo infilzavano con un grosso ago e dello spago e, una volta essiccato al sole, iniziava il loro vero lavoro in fabbrica, dove lo stiravano, sbriciolavano e imballavano. Mentre lavoravano era vietato mangiare, parlare e cantare, perché la maestra passava come un’aquila a sorvegliare il loro operato.
La rivolta degli anni 40
Tuttavia, il loro cuore era incatenato, sì, ma ribelle: per questo le tabacchine determinarono una svolta nel Salento degli anni ’40, che voleva la donna sempre in casa e con la bocca chiusa, lontana da ogni prospettiva sociale e professionale.
In quegli anni, infatti, erano poche le donne che lavoravano, e uscire dalle quattro mura domestiche e lavorare, seppur sotto sfruttamento, rappresentava per loro un modo per imporre la figura femminile in una società estremamente maschilista, dimostrando che la forza fisica e mentale non era prerogativa esclusiva del genere maschile.
La vita delle tabacchine nelle fabbriche
In fabbrica, però, le ore non scorrevano liete, e alla fame e alla fatica, si aggiungevano le polveri che le donne erano costrette a respirare, con la conseguenza che molto spesso si ammalavano di tubercolosi o altre malattie respiratorie.
Perciò, il 24 settembre 1944, con gli animi infiammati di chi vuole smettere di subire angherie, le tabacchine scesero in piazza a Lecce per scioperare contro i soprusi e per i giusti diritti, gridando per l’adeguamento dei loro salari al nuovo costo della vita, per il rinnovo dei contratti e per la regolarizzazione delle assunzioni, fino ad allora decise in base ai favoritismi delle “mesce” (le mesce erano delle “maestre” che avevano il ruolo di controllori e che spesso erano imparentate con il padrone della fabbrica).
Le lotte per i diritti
Fu proprio in quegli anni, infatti, immediatamente dopo la caduta del fascismo e fino all’inizio degli anni ’60, che si assistette a un’intensa mobilitazione che interessò l’intero Mezzogiorno.
Quello fu il principio, la gestazione di una vita democratica, dove finalmente la gente trovò il coraggio di far valere le proprie ragioni attraverso le proteste. Il leit motiv di quelle lotte fu non solo la coltivazione delle terre incolte, ma anche e soprattutto la ricerca di un’autentica rivalutazione delle figure fino ad allora bistrattate, come i contadini, i coloni, i braccianti in genere e le tabacchine, che si erano viste spingere ai margini estremi di una società rigida e mentalmente chiusa.
Queste lotte furono il primo passo verso la modernità, verso un rinnovamento economico e sociale. Piano piano, le donne che decidevano di lavorare furono sempre di più, così i lavoratori uomini si videro affiancati dal genere femminile, talvolta anche dalle figlie adolescenti che volevano lavorare per mettere da parte il denaro necessario per il corredo nuziale.
Sebbene oggi possa risultare strano, quello fu un momento decisamente all’avanguardia per il Salento, dopo un lungo periodo di buio dovuto anche alla guerra. Nel 1947 la provincia di Lecce contava quasi 20.000 ettari di coltivazioni di tabacco, che veniva poi lavorato in centinaia di fabbriche dalle mani pazienti di circa 50.000 tabacchine.
La coltivazione del tabacco rappresentava, dunque, un’importante fonte di reddito per l’intera provincia e per la Puglia in genere.
Oggi delle fabbriche di tabacco non rimane nulla, se non gli edifici disseminati in tutto il territorio della penisola salentina.
Il vissuto delle tabacchine riecheggia lontano tra i racconti degli anziani e le note degli stornelli, perché la storia dei poveri non fa rumore, come il fumo di una sigaretta che svanisce in un soffio e che lascia di sé soltanto l’odore.
Foto principale da belsalento.altervista.org